Era forse destino che andasse a finire così. Stava forse scritto, come accade in molte famiglie, che i figli continuino l’opera iniziata dai padri.
Mio nonno fu macellaio, mio padre è stato a sua volta un macellaio, io fui un “Giovane macellaio all’Accademia di Belle Arti di Venezia”.
Guardando i miei compagni dipingere pensavo che come un pittore espone le proprie opere, appende la tela alla parete, così un performer mostra le proprie carni; si manifesta attraverso il corpo ed Il corpo diventa supporto per un linguaggio. Esso è il linguaggio stesso.
Ora io non sto più nella pelle perché il mio corpo è diventato un contenitore troppo stretto. Sento una pressione che spinge all’esterno ciò che sta dentro; estraggo, mostro, “incarto” e porgo.
I lavori su carta muovono in questa direzione; sono cartocci simili a quelli con cui si esce da una macelleria: contenitori per sezioni di corpo, sezioni di ciò che un tempo conteneva.
Tutti i lavori nascono da immagini proiettate sul supporto e ricalcate pittoricamente con il mio sangue. Non c’è alcun interesse per il fatto pittorico bensì l’auto-sorpresa di un’immagine che fisicamente esce dal proprio corpo. Sono io fuori di me…
sono fuori di me.